Come belve feroci

… forse anche peggio. Era da qualche tempo che non leggevo un libro così, di quelli che mi spingono a spiegare a fondo i motivi per cui mi è piaciuto, pur detestando ogni riga, ogni personaggio.
Come belve feroci è l’ultimo romanzo di Giuse Alemanno, ed esce oggi per Las Vegas Edizioni, nella collana I Jackpot.

Siamo a Oppido Messapico, in provincia di Taranto, una domenica mattina, nella masseria di proprietà della famiglia Sarmenta. Nell’ora solitamente dedicata al pranzo famigliare, viene consumato un massacro abietto, le cui vittime sono Paolo e la moglie Enza Sarmenta. L’orrendo assassino è Costantino Rochira, piccolo boss locale, spalleggiato da due suoi tirapiedi. È lì come inviato da qualcuno più potente e più pericoloso, per regolare i conti, e anche per mettere in atto una sua meschina vendetta personale.

Il risultato, però, non è quello auspicato. Al massacro sfuggono il pericolosissimo figlio adolescente dei Sarmenta, Massimo (con un soprannome estremamente eloquente, “Mattanza”), e il fratello di Paolo, Vittorio, e la sua famiglia: la moglie Mimma e il figlio Santo. Costantino Rochira è un sadico meschino, ma non troppo brillante di testa. Ed è uno che non si sa controllare.

Vittorio Sarmenta è il più sveglio e il più spietato dei due fratelli, e non è stata una mossa particolarmente saggia quella di lasciarlo fuggire per mezza Italia, accompagnato dalla famiglia e da due borsoni straripanti di denaro. In cerca di salvezza, spronato dal desiderio di vendicare la morte del fratello, il superstite si rifugia in Val Camonica, seguendo i fili nascosti della rete più perversa che abbia mai attraversato l’Italia. A Pitoto di Forra, cerca un vecchio compagno di carcere e di “affiliazione”: Giovanni Argento. Sono passati gli anni, quest’ultimo ha capelli bianchi e una gamba di meno, ma una posizione di tutto rispetto. La sua apparenza dimessa smentisce l’enorme intelligenza e capacità di tessere reti di alleanze perverse, quasi tutte imperniate sui vizi delle persone nei posti chiave della società locale, che gli portano fiumi di denaro e la tranquillità di poter fare e disporre di tutti e tutto quello che desidera. Vittorio Sarmenta ritiene di essere passabilmente al sicuro con qualcuno che arriva dalla sua stessa tana, che condivide la sua stessa ferocia e sprezzo di tutto quello che non abbia la forma di una banconota di grosso taglio.

Illudendosi. Ma questo è solo un altro filone della storia… che prosegue intricata e crudele come l’inizio, mescolando svolte, assassinii, tradimenti, retroscena, tenuti insieme da una narrazione spietata, lucida, irridente, a tratti triste e intrisa di humour nero. Molto nero, non aspettatevi nulla di “inglese” o di contegnoso, raffinato.

Non dirò altro sulla trama, sugli eventi che si susseguono concatenati come le maglie di una collana, e che si sventagliano dalla Val Camonica a Oppido Messapico e ritorno, passando per altre regioni italiane.

Personalmente, sono rimasta affascinata. E disgustata. E infuriata. E pensosa. Non è un libro che mi ha lasciato indifferente. E non sono solo gli eventi descritti, che basterebbero a provocare ondate di nausea a chi non regge l’esibizione dei lati peggiori della natura umana.

Sono anche i personaggi, uno “peggiore” dell’altro.

E cosa intendo con “peggiore”?

Non è facilissimo spiegarlo. Sono tutti crudeli, a loro modo. Spietati, senza considerazione per nessuno, forse solo un po’ per i membri della propria famiglia… soprattutto quando diventano vittime di violenza, per cui è necessario vendicarli, con abbondante spargimento di sangue, possibilmente. Questo perché un certo codice profondamente tribale vuole che ad ogni assassinio di famiglia corrisponda un altro assassinio uguale e contrario nella famiglia del criminale. Come se non lo fossero tutti… chi è davvero vittima innocente, qui? La legge del taglione è forse l’unica religiosamente rispettata senza sgarri o amnistie, indulti di nessun genere.

Il re di questa spietatezza d’animo è Massimo, il figlio superstite di Paolo. Osservatelo bene. Ascoltatelo, quando si degna di parlare. Non ha molto altro da offrire se non un immane istinto violento che lo porta a uccidere, menomare e a infliggere sofferenza a chi gli si oppone, oppure offende lui e il cugino Santo (il figlio di Vittorio, suo cugino quasi fratello). E senza emozioni. Quando diventa il demonio feroce che è davvero, Massimo non gode. Non soffre. Non si sente libero di esprimersi, pur se in quel modo orribile. È solo se stesso. Obiettivamente, nudamente, paurosamente se stesso. Non una parola di più, non una di meno.

Santo, il cugino, è l’esatto opposto. Bel ragazzo socievole, è dotato di un talento eccezionale per gli studi e l’apprendimento. Tutta l’università dove sta studiando medicina (grazie agli appoggi e alle amicizie molto particolari di Giovanni Argento) lo conosce e lo osanna per le sue capacità straordinarie. La ferocia della sua tribù di demoni è attenuata in lui, dall’amore per il sapere, ma in almeno un’occasione, forse quella più importante, esce fuori ad affiancarsi a quella già nota del cugino Massimo, perfettamente a suo agio.

Le origini, la prima aria respirata, il cibo mangiato, le abitudini acquisite, arrivano tutte da quel primitivo codice tribale di cui parlavo prima, in cui è il sangue a decidere tutto. È difficile sfuggirgli. Riesce a infilarsi nei cromosomi, nelle leggi di trasmissione genetica, e a riemergere dove e quando meno te l’aspetti.

Intorno a questi due ragazzi, vorticano una serie di altri personaggi, minori forse per la lunghezza delle loro parti, ma in quanto a ferocia e doppiezza non sono secondi a nessuno. Divertitevi a scoprire quanto riescono ad andare in basso anche i cosiddetti “notabili” o coloro che si inginocchiano davanti agli arredamenti sacri dei monasteri. Se dovessimo chiamarli ipocriti, faremmo loro il più delicato e fiorito dei complimenti.

Lo stile della narrazione è stupefacente. Una vicenda come questa rischia di diventare splatter o di stomacare. L’autore, con il suo stile quasi d’altri tempi, è riuscito a raccontarla con un piacere quasi letterario. È riuscito, e ancora non comprendo appieno come, a scrivere di orrori veri senza scadere nel banale o nel già visto. Senza essere l’oggettivo lucido di Larsson, con il suo taglio da reporter, e senza essere il moralizzatore che denuncia, o il morboso che si compiace di violenza distribuita così facilmente. In alcuni punti, il suo linguaggio si alza decisamente di qualità, diventando quasi letterario. Se leggete la presentazione del libro, una frase vi rimarrà impressa:

Come belve feroci è un romanzo crudo, dalle venature hard-core, che non risparmia niente e nessuno, che somiglia a un film di Tarantino raccontato però dalla penna di Verga.

Ed è proprio così. È come se il verista meno apprezzato d’Italia avesse scritto il seguito dei Malavoglia alla maniera di Pulp Fiction.

Ammetto che questo connubio particolarissimo, tra stile ed eventi, mi ha spiazzata non poco. Tant’è che mi sono riletta il primo capitolo, pensando di essere vittima di un’allucinazione o della mia vista calante. Quando mi sono resa conto che quella era proprio la veste del romanzo, non mi sono più staccata finché non ho visto la parola fine e soprattutto… ho letto la lettera nell’appendice. Non vi dico altro. Leggetela, leggetela, e riflettete. Se ci riuscite. Io ci sto ancora pensando, a giorni di distanza, e sono tentata di chiedere all’autore un paio di delucidazioni.

Magari lo farò. E visto che ci sono, gli chiederò se per caso rivedremo ancora i due cugini Sarmenta. O solo Massimo, chissà.

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